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IL MISTERO DI VILLA SEVERINO
Le ho viste arrivare. Tutte e tre. Cosetta, Dina e Sofia. Salivano su per la gradinata che porta alla chiesa di Sant’ Anna. Salivano con circospezione, tra la neve ancora fresca. Si sentiva, più che vederla, la loro paura di cadere.
Si sono fermate, e si sono scambiate poche parole. Un accordo, forse, o un incoraggiamento.
Hanno raggiunto il portone e sono entrate.
Altre persone sono state qui nei giorni passati, prima che venisse giù tutta questa neve. Le ho sentite parlare, ho origliato e ascoltato le loro parole. E ho capito che Cercavano un tesoro.Lasciato da un soldato tedesco in fuga. Qualcosa di prezioso che è rimasto nascosto qui e che nessuno è riuscito ancora a trovare. Hanno girato per le stanze, aperto tutte le porte, dal piano terra su su, sino alla torretta dove abito io, ma qui, nella mia stanza chiusa, con le finestre e la porta sbarrate, nessuno è. riuscito a entrare. Nessuno sa che abito qui..
Io invece so di quale tesoro parlano. Ed è mio. La scatola che ho affidato a Franz, perché lo nascondesse, tutti gli oggetti preziosi che ci assicureranno una vita felice insieme quando lui tornerà a prendermi.
Non c’è più alcun tesoro, qui. Il mio Franz, il mio bel capitano biondo, se lo è portato via.
Lui mi ama. E non è fuggito, come dicono. Non è fuggito. Mi avrebbe portato con sé, se avesse potuto, ma era troppo pericoloso., allora, muoversi in due.
.Lo ricordo come fosse ieri, il momento dell ’addio.
Mi ha baciato, nella stanza della torretta e poi mi ha sussurrato “ti chiudo qui, perché nessuno possa entrare e farti del male. Ma non aver paura, io torno. “ HA riempito di mattoni l’apertura della finestra, è uscito, ha chiuso a chiave la porta e si è allontanato.
Ho sentito i suoi passi che scendevano veloci le scale.
E io sono rimasta qui a aspettarlo. E ho sofferto la fame e il freddo, ma non importava, perché sapevo che Franz sarebbe tornato.
Le voci oltre la mia porta parlano di un fantasma.. Una donna, dicono. Che si muove per le stanze e fa cadere delle cose. Io non so. Un fantasma? Non c’è mai stato un fantasma, qui.
Io sento solo il fruscio delle foglie degli alberi, le ante di una finestra che sbattono, l’abbaiare di qualche cane. Niente altro.
Le tre ragazze sono qui. Hanno aperto tutte le porte, sono arrivate alle torretta e le sento parlare piano.
“ La casa è stata occupata dai tedeschi “ dice Cosetta e le altre si chinano verso di lei, gli occhi che si fanno attenti.
“ Sì, è vero” prosegue Dina. Mia nonna ripete spesso che i soldati tedeschi si erano presi alcune ragazze del paese e le avevano tenute con sé una notte, due notti, che poi le avevano lasciate andare, tutte, meno una. e si chiedono se è stata trattenuta a forza o se è lei che è voluta restare.
Dicono che nelle notti di vento, la sentono ancora urlare il nome di un uomo.
Dina, Cosetta e Sofia riprendono il loro giro. Salgono le scale. frugano negli armadi, aprono i cassetti, sollevano polvere, vecchi lenzuoli, spostano poltrone, rimuovono la cenere dei camini. Le seguo di nascosto, attraverso ai muri. Mi aggiro fra di loro, nascosta.
Sento le loro voci. Cosetta dice che non crede ai fantasmi, ma la sua voce trema, Dina
si guarda intorno e le leggo negli occhi la paura, Sofia ride senza motivo. Fuori è già buio. Si alza un vento di ghiaccio. Lo sento ululare tra le fronde del pino, oltre il terrazzo, muove le tende di finestre sconnesse.
E lui è là. Un’ ombra più scura Sul viale di accesso. Sospinto dal vento che gli scompiglia i vestiti. E allora lo chiamo con tutta la forza che è dentro di me: “FFFRRRANNNZZZ”
Chiudeva gli occhi, nonna Elsa, e raccontava. Le piaceva raccontare. E i suoi racconti Sapevano di acqua di fiume e di alghe di lago, di boschi e di alberi stregati che affondavano le radici nel fango scuro della riva.
Nella casa di assi in fondo al cammino non arrivava la luce, oggi come allora. Le ombre della sera segnavano la fine del lavoro nei campi, l’inizio di una cena frugale cucinata e consumata alla luce di un lume a petrolio.
Mangiavamo in fretta, noi bambini, lo sguardo rivolto verso la nonna pronti a cogliere un cenno d’assenso, un sorriso represso, che voleva dire che sì, quella sera ci sarebbe stata una storia , che potevamo stare alzati a ascoltarla.
Ci accoccolavamo a terra allora, davanti a lei, seduta sulla sua poltrona preferita, un lavoro a maglia mai concluso appoggiato sulle ginocchia.
A quell’epoca Roemi, la più grande fra noi, forte dei suoi quattordici anni, aiutava la mamma a sparecchiare la tavole e la seguiva in cucina.. Si sentiva il suono delle stoviglie smosse e di un loro chiacchiericcio a volte concitato, a volte interrotto da qualche risatina sommessa.
Eravamo rimasti in quattro a pendere dalle labbra di nonna Elsa, a vivere della magia che scaturiva dai suoi racconti, mai gli stessi, sempre inventati.
Fu in una di quelle sere in cui la nebbia rendeva confusi gli alberi e le case oltre i vetri, fu in una di queste sera, che nonna ci propose il gioco.
“Stasera facciamo un gioco” disse e a noi che ci guardavamo confusi, senza osare replicare, a noi che non avevamo giochi con cui giocare, sorrise e chiese di dire le prime parole che ci venivano in mente.
“ Tavola” trillò Simona che aveva poca fantasia e aveva bisogno di certezze.
“ Augurio” saltò su Vera che il giorno dopo avrebbe compiuto dodici anni.
“ Coraggio” mormorò con voce roca Anita che aveva paura di tutto.
“ E tu, Adriano?”
“ Vita” dissi io, e pensavo ai miei incubi notturni in cui si aggiravano scheletri e misteri.
“ Tavola, augurio, coraggio, vita” riassunse nonna Elsa.” bene. ora costruiamo un racconto, tutti insieme. con queste parole. Parliamo di un angelo, di quelli che Il Signore manda sulla terra a aiutare l’anima di chi muore, a salire verso il cielo…. “
“ il cuore degli uomini è il rifugio della speranza” sentenziò il nonno e si alzò .” speranza di non morire, di continuare a vivere in qualche altro modo, in qualche altra forma. io me ne vado a leggere il mio giornale. voi pensate pure alla vostra storia”
“ buonanotte, Fulgenzio” salutò nonna Elsa.
“ buonanotte, nonno” facemmo eco noi.
“ comincio io che sono la più grande. “ disse Vera. “ c’era un uomo, una volta, che veniva spesso a pescare e pescare gli piaceva a tal punto che aveva acquistato una piccola baita abbandonata, sulle riva destra del nostro lago. La baita era vecchia,in qualche punto scrostata, in qualche altro, bisognosa di restauro, ma a lui piaceva. Gli piaceva il piccolo portico e il rampicante che vi si era insinuato e si arrampicava libero intorno alla sua porta. Quell’uomo si chiamava Giuliano e non aveva un cognome. O almeno nessuno sapeva quale fosse. Mi chiamo Giuliano, diceva, Giuliano e basta.
“Si’” interruppe Simona. “ e le parole? non hai detto nessuna delle parole.”
“ continuo io, dissi, per evitare un litigio che sembrava prossimo a scatenarsi.
“ Veniva spesso qui, Giuliano. Lo si vedeva, sin dalle prime luci dell’alba, entrare nell’acqua, gettare la lenza , restare immobile per ore, figura che a volte appariva e spariva nella nebbia del mattino. Aspettava. Carpe, lucci,anguille e uno o due volte qualche grosso luccio…volte alborelle,……………..
Il primo pomeriggio lo vedeva risalire la riva col suo passo metodico, pesante.
Non entrava neanche in casa. Sedeva subito su una rozza panca appoggiata alla parete, , volgeva lo sguardo a cercare brandelli di cielo fra le foglie di una vecchia acacia, rovesciava il pesce davanti a sé, su una tavola di legno consunto che gli serviva da desco, da sala di lettura, da scrittoio, da appoggio momentaneo per piccoli cesti.
Puliva il pesce pescato, Giuliano e lo imbustava e lo poneva con attenzione in piccoli cesti e vi aggiungeva due o tre mele, delle pere, qualche susina se era la stagione giusta.”
“ che andava a cogliere nel suo piccolo frutteto dietro casa.” Vera approfittò di una breve pausa nel racconto per proseguire. “ I inseriva in ogni cesto una breve frase di augurio.Vedrai che guarirai presto, Velia.,oppure Il tuo bambino sarà splendido, Beniamina, o ancora: questo è per te,Egidio,
e per te, Erica, i vostri guai stanno per finire.”
Portava i piccoli cesti sulla soglia delle case e si allontanava, piano, senza far rumore, perché nessuno si accorgesse di lui, uscisse sulla porta e lo ringraziasse.
Scriveva poesie, Giuliano, brevi, intense. Le appendeva con fili sottili ai rami dell’edera che cresceva in un vaso, sotto ilalbero davanti alla sua porta. Dondolavano nel vento,
Tocca a te, Simona. Continua tu”
“ la parola? ah. coraggio. Tornava una sera da una di queste sue passeggiate. era una sera piena di nebbia. non si vedeva quasi nulla. Giuliano faceva fatica a individuare sentieri che pure conosceva bene. Ma il grido lo sentì. E forte. Era il grido di un bambino e era una richiesta d’aiuto e veniva dalle acque fredde del lago. Giuliano sentì i battiti del cuore accelerare. Il rumore dei suoi passi che correvano sulla ghiaia gli rimbombavano nelle orecchie. Quei pochi metri gli erano sembrati una distanza infinita, i pochi minuti trascorsi, un tempo interminabile. In poche bracciate aveva raggiunto il ragazzo, appena prima del punto in cui la corrente l’avrebbe portato via, lo aveva afferrato e sospinto sin sulla riva, oltre il canneto, sui primi ciottoli della spiaggia, lo aveva preso tra le braccia e riportato a casa, lo aveva affidato alle cure della madre, del medico di turno, aveva resistito alle preghiere della donna di entrare, qualcosa di caldo,Giuliano, si segga un momento con noi. Aveva imboccato la strada per il casolare. Lo avevano trovato la mattina dopo. Sembrava dormisse e era morto. Sul tavolo, trattenuto da un sasso colorato, un foglietto. Poche righe che erano la sua ultima poesia.
“ rami d’inverno
ossute mani rivolte verso il cielo,
in una muta preghiera di vita”
“ Concludo io” decise la nonna e chiuse gli occhi. Vi ricordate? la mia parola è angelo. E un angelo era davvero quest’uomo buono. Lo era stao in vita e lo divenne dopo la morte.
E’ lui che aiuta le anime di chi muore intorno a questo lago a salire verso il cielo.
C’è chi dice che nelle sere di nebbia o alle prime luci dell’alba , lo si vede ancora, gli stivali nell’acqua, la canna in mano, gettare la lenza nelle acque ferme del lago.
GIULIANO E BASTA
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