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IL TERRAZZINO FRA LE CASE

Alessia si spostò sulla carrozzina, raggiunse il tavolo sul quale ricordava di aver lasciato il   libro che stava leggendo la sera prima, ma non lo trovò. Sul ripiano di legno scuro c’erano solo alcuni disegni di Annarita, la figlia quindicenne, senza dubbio, pensò con una punta di amarezza, il compito che avrebbe dovuto consegnare quella mattina stessa all’insegnante di disegno. I fogli erano sparsi in disordine, messi lì e poi dimenticati nella fretta di uscire di casa, ancora scarmigliata, con la giacca sbottonata, lo zaino a sghimbescio su una spalla e un biscotto mangiucchiato in mano. Sempre in ritardo, Annarita: un  uragano d’iniziative lasciate a metà, con le idee che le galoppavano in testa e correvano via prima che potesse raggiungerle.

Alessia li guardò ad uno ad uno. Poco più che schizzi, ma ben proporzionati. Il soggetto era sempre lo stesso, ripreso da diverse prospettive, un piccolo terrazzo quadrato, dove le piastrelle marezzate mettevano in evidenza il colore sanguigno delle rose, il giallo delle fresie nei grandi vasi accostati alla ringhiera. La matita aveva tratteggiato chiaroscuri delicati, evidenziato luci e ombre, messo in risalto i contorni delle cose. E quello, Alessia ne era sicura, era il terrazzino della sua infanzia, quello della casa dei nonni, a Riomaggiore, pochi metri quadrati inseriti a forza tra vecchie case di pescatori aggrappate l'una all'altra, così in alto che ci si arrivava dopo un numero infinito di gradini, non ricordava più quanti. Ma allora sì, allora lo sapeva, li contava ad uno ad uno per alleviare almeno in parte, la fatica della salita.  

Saliva piano, a passi pesanti e ogni tanto si fermava, si appoggiava al muretto e guardava verso il mare. I grandi che rientravano con lei non capivano, brontolavano la loro stizza nel veder rallentato il loro cammino, la incitavano con frasi ripetute sino alla nausea: ”Ma non ti sembra di esagerare, non hai ancora dodici anni, è un po’ presto per fare la vecchietta, su pigrona che non si arriva più… guarda Luisa  è più piccola di te ed è già quasi arrivata…” Alessia non rispondeva. Alzava la testa e rispondeva con stizza ai gridolini di trionfo della sorellina che aveva già raggiunto la ringhiera e vi si aggrappava ridendo. Le sembrava che raccontare la fatica che faceva, confidare la paura che le gambe le cedessero da un momento all’altro potesse essere preso come una scusa, una bugia per difendersi dalla pigrizia di cui veniva accusata.

Ogni estate, la casa dei nonni era il luogo e il tempo dell’incontro, la meta delle loro vacanze.

Alessia ricordava quei momenti, così simili in tutti quegli anni: la mamma si affrettava su per le scale per arrivare per prima, attraversava  a grandi passi il terrazzo, spalancava la porta d’entrata e chiamava a gran voce: “ Ehi, di casa… c’è nessuno?” Da qualche stanza in fondo alla casa sbucavano la zia Emma e la zia Federica vociando la loro gioia, e dietro di loro, nonna Eloisa che si asciugava le mani nel grembiule e sorrideva e li baciava e le diceva ” Ma venite  qui,bambine,  Alessia, Luisa,  ma fatevi vedere, come siete cresciute dall’anno scorso e tu, Alessia, quasi una signorinella”.

Il nonno, no. Il nonno, bisognava andare a salutarlo. Se ne stava seduto sul suo divanetto a fiori gialli e fingeva di

leggere un giornale, tutte quelle “smancerie”  di donne, lui non le capiva. “Bisogna aver passato quarant’anni in mare per forgiare il carattere”, diceva spesso, ma la voce gli

s’incrinava quando vedeva entrare Giuliana seguita dal marito e dalle figlie.

 Alessia si guardò le mani rattrappite dalla malattia, rifiutò di soffermarcisi col pensiero, i suoi occhi, invece,  si spostarono sul lavoro di Annarita, ne ammirò la capacità di ricordare e riprodurre particolari: il vaso di peonie sulla sinistra della porta, sbeccato in un angolo da un numero imprecisato di anni e mai sostituito, e la leggera, quasi impercettibile crepa sul marmo della panchina e l’affollarsi delle buganvillee contro il muro bianco..

Alessia non amava i ricordi, li trovava inutili e dolorosi, ma senza accorgersene, si ritrovò a pensare a se stessa, bambina,  attraversare il terrazzino e insieme a Luisa, scendere alla  piazzetta del paese, strascicare gli zoccoli sino alla spiaggia sassosa, gettare pantaloncini  e magliette alla rinfusa per la fretta di correre verso il mare. Tornavano stanche, affamate, affannate, e le loro risate, i loro litigi si quietavano solo sulla soglia della cucina.  Qui, nell’ampio locale protetto dal sole  dalle persiane accostate, si riunivano le donne di casa, qui, le chiacchiere si mischiavano ai ricordi, si mescolavano al profumo del soffritto e dell’arrosto, si sgretolavano insieme alle zucchine e alle cipolle sul tagliere di legno. Episodi slegati tra loro apparivano all’improvviso,  conditi di

sorrisini e di risate.

“ Ma vi ricordate, diceva Giuliana,  di quando Federica ha scagliato con rabbia un sasso contro un vaso perché quel tizio, come si chiamava? Natalino, ma può uno chiamarsi così, ma dai…  non si era presentato al primo appuntamento e lei non aveva trovato altro modo per sfogarsi ….”

“ E tu,” ribadiva Federica piccata,” di quando sei andata  sino a Manarola di nascosto e non tornavi più perché avevi incontrato Livio e ti eri fermata a chiacchierare. Mamma e papà erano così preoccupati che stavano per chiamare la polizia. Ti abbiamo cercato da tutte le parti, sembravi sparita: quando sei tornata, poi, con la tua aria da innocente, raccontando di essere stata dove non ti abbiamo trovato, papà era così infuriato che se non ti ha preso per i capelli, c’è mancato poco..”

“ Lo ha fatto…”

“ Cosa? “

“ Prendermi per i capelli e poi non mi ha rivolto la parola per tre giorni”

“ Ma cosa ci eri andata a fare a Manarola?”

“ Ma niente. Avevo letto su un manifesto che quella sera ci sarebbe stata la Carla Damiani, ve la ricordate, era la cantante rock del momento. Tutti impazzivamo per lei. Ma ti ricordi, mamma,  avevo tutti i suoi dischi e tu brontolavi per il volume troppo alto e perché non sentivi altro per tutto il giorno e,  a proposito, chissà dove sono finiti, da qualche parte in solaio immagino. Io volevo andarci, ad ascoltarla,  ma sapevo che tu e papà non  mi avreste mai dato il permesso, così, me lo sono preso da sola. Ho fatto male i calcoli. La strada del ritorno non finiva mai, l'ho fatta tutta quasi di corsa e quando sono arrivata ero al limite dello svenimento. E poi non sapevo che avrei trovato Livio e mi sono fermata un po’ troppo …. Insomma,  avevo solo sedici anni e mi sembrava impossibile che uno come lui….così bello e più grande, e più…più… ”

“ Capiamo “ dicevano le sorelle con la voce e con la testa, “capiamo”.

Luisa e Alessia le ascoltavano affascinate. Apparecchiavano la tavola in silenzio, con gesti lenti, frenati dalla paura che il rumore di un piatto poggiato troppo in fretta, il tintinnio di un coltello che cadeva potesse interrompere in qualche modo quel flusso di pensieri e di ricordi in libertà.

 Sabato non si andava al mare. Era la regola. 

Sabato arrivava il papà e bisognava aspettarlo. Le due bambine restavano a giocare sul terrazzino, saltavano alla corda, facevano rimbalzare il pallone e ne contavano i rimbalzi, litigavano furiosamente per un numero sbagliato e si accusavano a vicenda di barare. C’era stato un giorno i cui avevano deciso di giocare a “campana” e mentre saltava tra una piasterelle e l’altra, ad Alessia era ceduta una gamba e si era dovuta sedere sul primo gradino con le lacrime che le scendevano giù per la faccia, la testa china per non guardare la   sorellina che le saltellava intorno gridando i suoi “ ho vinto, ho vinto” ai quattro venti.

“ Perché fai così? “ aveva chiesto zia Emma, ” se non ti metti alla prova, non riuscirai mai nella vita, … come nel gioco” e se n’era andata scrollando la testa. Alessia si era rialzata in un impeto di orgoglio e aveva cercato di riprendere il gioco, ma era caduta e questa volta Luisa si era spaventata e si era messa ad urlare e chiamare aiuto, finché era arrivato papà, l’aveva presa fra le braccia ed era stato ad ascoltare, senza interromperla mai, tutto quello che le succedeva da qualche tempo. Aveva fatto una faccia scura il papà che era sempre così sereno e aveva detto: “Potevi dirlo prima” e poi l’aveva presa in braccio e portata giù per la discesa, l’aveva aiutata a entrare in macchina e aveva guidato con la stessa faccia scura sino all'ospedale.

Il medico che l’aveva visitata si era consultato a lungo con due colleghi prima di pronunciare quel nome che ancora la ossessionava: “ Charcot-Marie-Tooth”  e quando papà l’aveva riportata a casa, nessuno aveva più trovato da ridire sul suo passo lento e la fatica che faceva a salire le scale.

“Charcot-con-quel-che-seguiva” era la sua malattia, quella che la faceva cadere, che le rendeva le caviglie così deboli che bastava un nulla a provocare una distorsione, che le irrigidiva i muscoli delle gambe in crampi dolorosi e che si

era aggravata dopo la nascita di Annarita. Ma Annarita era il suo regalo, il parto insperato che le aveva ridato la gioia di vivere, la ragazzina che le riempiva le giornate con i suoi musi, le sue risate, le sue confidenze sussurrate, i suoi abbracci travolgenti e improvvisi.

Alessia si spinse sino alla finestra e scostò la tenda. Un sole pallido stava per spuntare nell’afa grigia del primo pomeriggio. Guardò l’orologio: pensò ad Annarita che stava per uscire da scuola e a Gioele che l’ andava a prendere, chiuso nel traffico cittadino dell’ora di punta.

Sorrise. La vita era stata prodiga con lei, pensò: le aveva dato un marito e una figlia perfetti. Si guardò le  mani. Fortunata: poteva ancora muoverle e afferrare oggetti e accarezzare il gatto e apparecchiare la tavola…

Se solo fosse riuscita a liberarsi dalla paura di cadere… e dall’ angoscia di non riuscire ad alzarsi da sola. Era solo per questo che Gioele e Annarita  insistevano perché lei usasse quella carrozzina durante la loro assenza. E lei aveva accettato per comodità.

“Sono una vigliacca, pensò, io posso camminare, ho solo paura di cadere”.

Era ora di metterla da parte, si disse. Non voleva più dipendere dagli altri e da quella sedia a rotelle. Tutti dicevano che era una donna determinata, bene, era ora di dimostrarlo a se stessa e agli altri. 

Sentì la macchina che si fermava e la portiera che sbatteva. Strinse le mani sui braccioli e si alzò. Rimase ferma un istante, poi si avviò.

“ Non devo cadere, non cadrò, non ora…” attraversò la sala, percorse il corridoio, aprì la porta e rimase ferma, sul pianerottolo, in attesa.

Sentì le loro voci in fondo alle scale, li vide arrivare con il cuore che le batteva in petto all’impazzata, si immerse nella felicità totale di leggere la sorpresa nei loro volti e poi la sua gioia esplose in una risata inframmezzata da singhiozzi e frasi quasi incomprensibili. “ Ci sono riuscita, non ho avuto paura“ continuava a ripetere più a se stessa che al marito e alla figlia, teneri, emozionati spettatori dei suoi progressi. “ Ci sono riuscita, Gioele, Annarita, vedete? Sono brava, non sono caduta, mai. Aveva ragione zia Emma, mi sono messa alla prova e… ho vinto, ho vinto io”.

 

 

 

 UN RAGAZZINO SPECIALE

 

Ciao Guglielmo,

scrivo a te,che sei stato in questi primi mesi di scuola il mio insegnante e la mia guida,  ma vorrei scrivere a tutti i  miei compagni ad uno ad uno, perché, insieme a te, hanno   cambiato la mia vita. Non ne ho il tempo, per questo scrivo a te, sicuro che domani mattina entrerai in classe col tuo passo sicuro e leggerai a voce alta  queste parole. Scrivo e cancello, batto i tasti come mi hai insegnato tu.

Vedi. Qualcosa ho imparato.  Li vedevo sai, i tuoi momenti di sconforto e li capivo e cercavo di farmi perdonare pestando più forte sul  computer.

“ Stai  attento, dicevi, è questo il tasto che devi battere. Riprova. “ E sorridevi. Ma io sapevo che eri scoraggiato e mi dispiaceva, Guglielmo, davvero, anche se non avevo le parole per dirtelo.

E mentre scrivo vi vedo e vorrei dire a Ivan “ togli quella penna di bocca,” a Loredana “ sei molto carina quando ti fai la coda di cavallo, a Maria Laura” studia un po’ meno, non occorre che sai proprio tutto”, a Natalino” studia un po’ di più, faccio  sempre troppa fatica  a suggerirti le risposte di educazione tecnica”  E…   Emilia  smettila di guardare sempre verso il banco di Fabrizio, che intanto lui ha in mente solo  i suoi giochi sulla play 2 e gli occhi marroni di Lena, la biondina  secchiona  della II M.

E tu, Alvise, ti ho visto sai mentre cercavi di… oh ma questo non posso dirlo. Sarebbe come fare la spia. Ti pare?

La mia testa si riempie di ricordi.   Che si accavallano e si inseguono come le onde. Al primo tentativo di afferrarne uno e di fermarlo, ecco che diventa schiuma e si dissolve.

Mi hai insegnato a correre. Ore che dedicavi solo a me, al di fuori delle scuola. Venivi a prendermi la domenica mattina e ti portavi dietro  tre o quattro compagni di scuola, sempre diversi, perché potessi confrontarmi con tutti, dicevi. Aspettavo il tuo arrivo, ti vedevo scendere e sentivo il rumore della portiera che sbatteva, allora correvo giù per le scale.

Mamma non era contenta, sai, Guglielmo. Adesso te lo posso dire. Lei mi ha sempre protetto, troppo, diceva il medico di famiglia, troppo, ero d’accordo anch’io che spesso mi sentivo soffocato dalle sue attenzioni. “ sei più fragile di loro” diceva e mi accarezzava la testa e mi indicava i compagni che restavano  nel pulmino  ad aspettarci. Sei più fragile. Era il suo modo di dirmi che la colpa non è mia, se sono down. E poi mi spiegava che ero il suo bambino speciale, tanto speciale   da essere diverso dagli altri.

 Ma io   non voglio essere speciale, io non mi sento diverso. Sai quante volte ho provato a spiegarlo, questo,  alla mia mamma. Non sono mai riuscito a finire il mio discorso perché a un certo punto le si inumidivanogli occhi e  mi abbracciavacosì stretto da impedirmi di parlare.  Ma quando tu arrivavi col tuo carico di compagni, vedeva anche la mia felicità e mi lasciava venire. E io indovinavo il suo cuore in gola e immaginavo l’ansia con la quale avrebbeaspettato il mio ritorno.

Così in quelle domeniche ho imparato a correre  insieme a Oriano, a Simone, a  Ivan,   a Guido. E poi ci sedevamo a guardare le ragazze che cercavano senza riuscirci disuperare i nostri tempi e tu dicevi, dai Marzio, vai con loro, un giro solo, fai vedere chi sei e io mi schernivo, no, io, no, prof, no, Guglielmo, io non ci corro con le ragazze.

Guardavamo Maria Laura, Ilde, Loredana che si affannavano dietro a Emanuela, Priscilla già pronta a ritirarsi al secondo giro, Romina che riusciva sempre a superare tutte all’ultimo momento.

 All’ora di pranzo, nelle giornate più calde, qualcuno tirava fuori, a turno, panini e coca. Natalino portava quei suoi  tramezzini stracolmi di maionese che ci colava sul mento e sulle mani appena li addentavamo e le torte salate preparate dalla mamma di Anna Rosa? così… salate che non riuscivamo a mangiarle. In quel momento invidiavo quasi Emanuela che si apriva il suo “cartoccio  speciale”  come lo chiama lei, di cibo per celiaci.

E poi, la domenica non bastava più. Tutti quei pomeriggi al parco, a fare footing e guai a non fare come dicevi tu. Non capivo perché. Non l’ho capito sino a pochi giorni fa, quando mi avete

 dato la notizia. Lo sapevate tutti, vero? E non mi avete mai detto niente. Dello sponsor, intendo. Che dovevate fare quella gara  e la dovevate fare per me. Che lo sponsor aveva messo a disposizione una certa cifra per la squadra che avrebbe vinto quella corsa. Era per questo che ci allenavi, Guglielmo, allora. E abbiamo vinto. E io ho corso per me, in mezzo a tutti voi, ragazzi, che correvate per me.

Perché questa è stata la sorpresa. Voi correvate per me e io non lo sapevo. Quella cifra, i soldi che lo sponsor ti avrebbe consegnato, Guglielmo, erano per me. Perché potessi partire e confrontarmi con altri ragazzi e ragazze e adulti.

  E la mamma li ha accettati come un regalo da parte vostra e poi si è commossa e ha detto sì, ma come fa a saperlo, professore, come fa a sapere che è un suo sogno, è per questo che l’ha allenato tutto questo tempo, vero? E poi ha abbracciato tutti quelli che erano lì, Alvise,  Priscilla,  Filippo, Simone, Romina e non la finiva più e io che chiedevo mamma , ma che succede, che succede e mi appendevo al suo braccio e ancora non capivo…

 Parteciperò alla maratona di  Parigi! E domani parto, con la mia famiglia.  E papà correrà accanto a me,  e scatterà una montagna di foto che guarderemo insieme al mio ritorno. Perché so che con la mente, sarete con me domani sull’aereo e poi con me a correre per le vie di Parigi.

Mamma sta per uscire. Lascerà questi fogli nella  tua cassetta delle lettere.

Ciao, Guglielmo, ciao a tutti.

E grazie

 Marzio

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

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