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L’adolescente è seduto sul primo gradino della casa. E’ una vecchia casa, ha l’aria abbandonata, nel buio della notte sembra un po’ sbilenca e tetra, nera contro un cielo ancora più nero. Tutto intorno è nero, un vento sottile si insinua tra le fronte degli alberi e le foglie delle siepi, un lampione illumina fiocamente la strada con il suo asfalto rovinato.
Il ragazzo porta un maglione a collo alto, da cui esce un volto scavato, e dei jeans in qualche punto ingrigiti dall’uso. Uno strappo sotto un ginocchio lascia intravedere un lampo di carne chiara, glabra, unica nota stonata in tutto quel nero.
Siede, immobile. Nella sua testa si rincorrono pensieri, foschi come la notte, parole gridate e frasi sussurrate, rimpianti di ribellioni non espresse, per mancanza di coraggio….è per questo? Gino glielo dice sempre, che deve farsi le p. se vuole sopravvivere al di fuori della casa-famiglia, è per questo che è scappato? Per vedere se è pronto per affrontare la vita e dimostrare che lui, quelle cose le ha….o per sfuggire alle rigide regole della casa famiglia e ai litigi, alle scazzottate con gli altri ragazzi?
Stamattina ha preso lo zaino ed è uscito, si è guardato bene dall’arrivare sino a scuola, è sceso sotto il ponte, lungo il fiume. Quan’era piccolo, una volta suo padre gli ha insegnato a gettare ciottoli nell’acqua, sceglieva quelli piatti, rotondi, saltavano sei, sette volte prima di sprofondare.
China la testa.
Poi è successo, papà ha trovato la mamma appoggiata alla tazza con una siringa infilata nel braccio ed è cambiato.
Erano rientrati insieme, dallo zoo, papà aveva urlato: “Leo, non entrare.” I ricordi si confondono. Nero. Il suono di un’ambulanza. Nero. Quando papà ha incominciato a bere? La vita in casa-famiglia. Nero.
E’ risalito sulla strada ed ha camminato, senza meta.
Un’auto passa lenta dietro la casa. I fari illuminano di scorcio la strada.
“Tanto non torno a casa “.
Un muso umido fra le ginocchia. Leo abbassa lo sguardo, protende la mano in una carezza. Non si meraviglia: le solitudini si assomigliano. “Chi sei?” chiede. Il cane raspa con la lingua la mano. E’ un bel cane, Leo non sa di che razza sia, ma ha un bel pelo, folto.
Leo sorride. Intorno, il mondo non è più tanto nero. “Ehi, bello” dice “ti serve un nome…Moreno,ok?”
Il cane scodinzola, felice.
“Ok, Moreno, domani compriamo guinzaglio e ciotola. Adesso andiamo a casa. Non è lontano”.

    

 

     Il COLPO DI FULMINE DI ALBERTINA

                                                                                                    seduta Era seduta sulla panchina e aspettava. Che cosa, non lo sapeva neppure lei. Albertina allungò le gambe davanti a sé. Fu in quel momento che successe: un cane sbucò all’improvviso da un cespuglio e attraversò il sentiero inseguito da… Albertina spalancò gli occhi: era lui, il ragazzo che aveva sempre sognato. Non l’aveva mai visto ma in quel momento capì che quello era il ragazzo che aspettava .Fu un lampo… e fu colpo di fulmine. E certo… un lampo perché aveva fatto appena a tempo a vederlo mentre inseguiva di corsa il cane e a malapena ne aveva udito la voce che lo chiamava, “Naaachiii”, voce  che le era sembrata  senza dubbio, quella di un angelo. Albertina si era innamorata e non sapeva di chi. Si era alzata, e senza pensare, si era messa ad inseguirli, il cane e il ragazzo che non conosceva, che non aveva mai visto e di cui voleva disperatamente conoscere il nome.

All’incrocio col sentiero che portava alla spiaggia, Albertina incontrò Beatrice, la compagna di banco, la prevenne con un “ sto inseguendo l’uomo dei sogni, vieni dietro..” e Beatrice la seguì correndo perché anche lei voleva sapere com’era fatto l’uomo dei sogni di Albertina e nell’attraversare il sentiero, s’ imbattè in Dafne, Eleonora e Furio che stavano per tornare a casa.

Senza fermarsi gridò loro : “ Venitemi dietro se volete conoscere l’uomo della vita di Albertina” .

Giuliano Isotta, maestro di IV A della scuola “ Giovanni Pascoli” aveva riunito nel pomeriggio la classe nel parco per studiare assieme fiori e foglie di primavera. Camminava lentamente per i sentieri,  si fermava ogni tanto a spiegare qualcosa, quando fu superato da un cane che correva alla disperata, inseguito da un giovanotto che ne urlava il nome,  e poi da una ragazza che arrancava dietro di loro con l’affanno che le usciva dalla gola. Non fece a tempo a girarsi, il maestro,  che rischiò di essere travolto da Dafne, Eleonora e Furio che correvano anche loro nella direzione degli altri. Il fatto è che il maestro conosceva bene Furio. Era il figlio di Marica, la sorella che era partita anni prima senza lasciare indirizzo, e la meraviglia fu tale che per saperne di più si mise a correre  anche lui con la classe al seguito.

 Al cancello del parco, Nachi frenò, si girò di botto e cominciò a correre  nella direzione da cui era arrivato . Nessuno fu in grado di prevederlo, nemmeno il padrone che riprese a inseguirlo urlando e agitando il guinzaglio. Tutti lo imitarono, Albertina con il cuore che batteva a mille, e Beatrice che arricciava il naso e  fissava ora Albertina ora lo sconosciuto  e sembrava volesse dire “Attenzione Albertina, guardati da lui, non vedi che tipo è “, e Eleonora e Furio e Dafne, che volevano saperne di più sull’amore dell’amica e il maestro Giuliano Isotta che voleva sapere qualcosa della sorella e del nipote e la classe IV A che voleva sapere perché il maestro si era messo a correre per il parco..

 Alla fine Nachi si fermò, proprio davanti alla panchina dove si era seduta Albertina. E il ragazzo che lei considerava già suo, si fermò, si voltò e le sorrise. Non sembrava arrabbiato, neanche con il cane. E si fermarono Dafne e Furio e Eleonora,  e si misero a ridere stupidamente perché non sapevano come giustificare la corsa che avevano fatto dietro di lei. E si fermò anche il maestro Giuliano Isotta che chiamò il nipote,lo abbracciò, fu riabbracciato e cominciò a parlare fitto fitto con lui e decise che il giorno dopo sarebbe andato a trovare la sorella che era tornata a stare in città. E si fermarono  ridendo e sbattendo  uno contro l’altro anche gli allievi di IV A che adesso avrebbero avuto qualcosa da raccontare nel tema che li aspettava in classe la mattina dopo.

 

 

 

 
.

L’ALBERO

 

Seduto accanto alla finestra del suo studio, Valerio aspettava. A tratti tendeva l’orecchio  al rumore  di qualche rara macchina che passava nella strada  Alzava la testa, lanciava sguardi di ansia  verso il cancello,  e si ritraeva deluso. L’albero. C’era l’albero che gli nascondeva parzialmente la vista, quell’albero che ora guardava con un misto di rancore e tenerezza, quell’albero carico di frutti e di ricordi. .

Valerio lo aveva piantato vent’ anni prima, il giorno della nascita di Armando.

In vent’ anni il ciliegio, un alberello esile, poco più di un ramo, poco più di un metro e mezzo, era diventato grande e forte,un’esplosione di fiori bianchi in primavera, di frutti rossi all’inizio di ogni estate.

Come Armando. Nato prima del tempo, sottopeso, aveva lottato con tutte le sue forze per continuare a vivere, e c’era riuscito: era cresciuto, si era trasformato in quel ragazzo magro e lungo   che stava per tornare a casa.

No, non come Armando. Armando era cambiato. Negli ultimi anni.  Chiuso e ostile  quanto l’albero era ridente e rigoglioso  con tutti quei rami  che si protendevano verso la sua finestra, carichi di frutti.

Sino a pochi anni prima, il ciliegio era stato  il gioco favorito del figlio. Armando vi si  arrampicava come un gatto  e lui  lo guardava sparire, braccia, corpo, scarpe, tra le foglie per riapparire dopo un’ora, due, con le braccia  e il viso macchiati di rosso, la maglietta strappata e le ginocchia segnate dai rami. Correva in casa trionfante con le mani e le tasche rigonfie di ciliegie tonde, scure,  versava il suo tesoro sul tavolo della cucina frastornando la madre di richieste e di risate.

Valerio tornava indietro con la memoria, frugava tra i ricordi. Alla fine del terzo anno Armando era risultato il migliore della scuola e il suo premio era stato un viaggio in Inghilterra. Rivedeva la felicità  del figlio  e i preparativi per la partenza, riviveva l’ansia  gioiosa della madre che lo guidava negli ultimi acquisti. Un mese e il  ragazzo allegro e compagnone si era trasformato in un adolescente introverso, pronto a reagire con scatti d’ira a ogni critica, a sbattere la porta andarsene a ogni minimo rimprovero.. Conversazioni sempre più rare, richieste di denaro sempre più frequenti, voti sempre più bassi, convocazioni a scuola, comunicazioni di insegnanti delusi.

Quell’anno Valerio aveva sentito il mondo crollargli addosso.  Aveva scoperto amicizie nuove,  nomi che non aveva mai sentito: Fabio,Wanda, Rodolfo. Con loro Armando bisbigliava  lunghissime conversazioni  al telefono, con loro usciva a qualsiasi ora del giorno e della sera.

Li aveva anche incontrati una volta che si era trovato a passare sul retro della casa, sul sentiero semi abbandonato che spariva nel bosco.

Erano seduti per terra, quei due e la ragazza, poco più che una bambina,  treccine nere e trucco pesante, un vestitino corto e  pesanti scarpe da ginnastica. Fumavano, la schiena appoggiata al muro, e chiacchieravano a bassa voce. Non li aveva mai visti prima, ma era certo che fossero loro. Ne ebbe la conferma dal loro chiamarsi per nome, ne fu sicuro quando uno dei due apostrofò con aria annoiata la ragazza : “ Ehi, Wanda, quello non si decide ad arrivare, và a chiamare Armando, muoviti, sono stufo di aspettare”  Wanda si era ribellata berciando parole irripetibili, ma poi si era mossa, lentamente, con fare sdegnoso: si era alzata stirandosi il vestitino sui fianchi  e si era avviata verso il portone di casa, muovendosi senza grazia nelle sue grosse scarpe da ginnastica .

Valerio si era allontanato in fretta, ma era riuscito a memorizzare in quei brevi attimi i  capelli lunghi e  le barbette incolte dei maschi, i loro visi  affilati dall’espressione vacua,. tutti e due più grandi di Armando, di una decina d’anni  almeno.

Aveva raggiunto l’ingresso della casa senza fermarsi, in tempo per vedere il figlio che ne usciva di corsa.

Erano passati cinque anni e sembrava un giorno. Cinque anni, quando lui poteva ancora…

Alzò la testa e guardò l’albero. Dovevano esserci almeno due nidi, pensò, a giudicare dal fitto andirivieni di  alcuni grossi passeri tra il fogliame e dal continuo sottile cinguettare che gli arrivava nelle giornate più calde, quando la finestra era aperta.

Ne avrebbe avute di storie da raccontare quell’albero, come  quella volta che Armando,  sette, otto anni non di più,  aveva trovato un uccellino caduto dai rami e l’aveva portato in casa. Teneva con delicatezza quel corpicino tremante tra le manine e  aveva provato a scaldarlo, a offrirgli da bere ma l’uccellino non reagiva, se ne stava fermo, spaventato, in fondo alla gabbietta finchè le forze gli erano mancate, ed era morto. Valerio ricordava la delusione del figlio, la tenerezza che aveva provato nel vederlo triste, nel leggergli negli occhi e nella voce lo sforzo per non piangere.

E le volte che uscivano  per coglierne i frutti ed era sempre Armando che voleva arrampicarsi tra i rami mentre Elga teneva la scala e porgeva i cesti che andavano riempiendosi di ciliegie scure e succose.

Valerio guardò l’orologio.

Quanto tempo era passato da quando Elga era uscita quella mattina? Quanto tempo doveva aspettare ancora per rivedere  il figlio? La comunità di recupero che l’aveva accolto due anni prima non era lontana e dunque, avrebbero già dovuto essere a casa da un pezzo,  ma …forse c’erano delle pratiche…delle carte da firmare, forse…

Armando si era comportato bene in quegli anni,  aveva dimostrato di aver capito, poteva tornare a casa.

Gli venne in mente che uscendo, la moglie aveva accennato al frigorifero vuoto, aveva detto che doveva per forza passare a comprare qualcosa  e si tranquillizzò.

Immaginò il suo incontro col figlio, la voglia di andargli incontro e di abbracciarlo,  di rassicurarlo che tutto sarebbe tornato come prima: Armando  avrebbe trovato un lavoro onesto, tranquillo oppure avrebbe completato gli studi interrotti, gli avrebbe dato libera scelta, senza forzarlo, e poi, all’inizio di ogni estate, si sarebbe nuovamente arrampicato sull’albero a prendere le ciliegie mentre lui ed Elga avrebbero aspettato che il cesto fosse colmo…

Valerio aspettava….   Una macchina che si fermava, lo scatto del cancello che si apriva. Ma non riusciva a vedere.   L’albero, c’era l’albero in mezzo. Adesso lo guardava con un misto di rabbia e di odio. Era lui che gli impediva di vedere, i rami erano cresciuti troppo, pensò e , avrebbe dovuto sfoltirlo, aveva sempre rimandato di anno in anno, gli mancava il cuore, gli sembrava di fargli un torto a tagliare e intanto i rami erano cresciuti sino quasi a raggiungere i muri della casa e adesso, avrebbe dovuto chiedere a qualcuno di farlo per lui..

Udì la porta del garage che si apriva e poi i passi della moglie nell’ingresso. Attese qualche minuto, poi si mosse: girò le ruote della sedia a rotelle e uscì dalla stanza. Elga era in cucina, stava disponendo sui ripiani, negli armadietti, nel frigorifero cose che estraeva ad una ad una da sacchetti di plastica. Valerio conosceva quei gesti: erano troppo meccanici, troppo regolari, c’era in essi una calma che lasciava intendere una rabbia appena sfogata, forse in macchina, tornando a casa, forse anche prima, quando… erano quelli i momenti in cui lui si sentiva inutile, non potersi alzare a consolarla  lo faceva sentire inutile e scomodo, un peso in più da sopportare.

Tacque aspettando uno sfogo che non venne. Elga continuava nel suo lavoro con una meticolosità irritante, si muoveva per la cucina senza parlare,  senza guardarlo, a occhi bassi,  chiusa in se stessa.

Valerio la guardava in silenzio. Si sentiva escluso da quel dolore cupo, irreversibile, Armando non sarebbe tornato , ora lo sapeva , la paura inconfessata degli ultimi tempi era diventata realtà, ma avrebbe voluto  sentirselo dire in modo chiaro e inequivocabile, sapere che cosa si erano detti quella mattina, sapere se il ragazzo avesse addotto qualche pretesto per non tornare.  Avrebbe voluto alzarsi, camminare, controbattere con la vigoria di un tempo la rabbia che sentiva crescergli dentro, allora  avrebbe afferrato la moglie per le spalle costringendola a parlare, a spiegare …

“ dimmi almeno…” Ma già Elga gli si avvicinava, si chinava verso di lui: “.” Ha detto che non viene, che preferisce così, che qui si sentirebbe di peso, che si vergogna e … insomma, tutte scuse, non mi faceva neanche parlare, diceva che un educatore, non so chi, un volontario, gli ha offerto un lavoro addirittura in Danimarca, una multinazionale, hanno bisogno di operai, sai tu… ha detto di non aspettarlo, ha detto che non tornerà, non vuole più tornare, dice di salutarti, che ti vuole bene,  che…ma che non tornerà”

Dalla finestra del suo  studio,Valerio guardava  il ciliegio.  Era colpa di quell’albero se aveva perso l’uso delle gambe, di quel ramo che aveva ceduto e si era spezzato sotto il suo peso, e lui era volato giù e tutti avevano detto che era stato fortunato a non rimetterci la vita…sì, era colpa di quell’albero, certo, e se avesse potuto camminare, sarebbe andato lui stesso quel giorno a parlare con Armando, avrebbero chiarito mille cose, sarebbe riuscito a farlo ridere come un tempo e suo figlio ci avrebbe ripensato, sarebbe tornato indietro, a casa,  e tutto sarebbe tornato come prima.

Odiava quell’albero. Adesso lui era lì, fermo, fiori bianchi che stavano per sbocciare, era lì e non si sarebbe mosso, lui non se ne  sarebbe andato, sarebbe rimasto, immobile, davanti alla sua finestra.

Represse un singulto di rabbia, spinse la sedia sino al garage, quello che gli serviva era ancora al solito posto, appesa a un chiodo che sporgeva dal muro, troppo in alto per lui che non poteva più alzarsi.  Si voltò e c’era Elga dietro di lui, fu lei a prenderla e a spingere la carrozzella verso l’albero, fu lei a dare il primo colpo: l’accetta penetrò solo di qualche centimetro nel tronco: non importava, era solo un segno. Il giorno dopo avrebbe chiamato un giardiniere che avrebbe completato l’opera.

 

IL RAGAZZO CHE NON AVEVA  MAI VISTO IL MARE( da un quadro di Luca Pozzi)

La sera in cui seppe che l’avrebbero portato al mare, alzò appena gli occhi dal libro di matematica. Il suo sguardo era così poco interessato che suo padre pensò di rinunciare.
Solo allora si rese conto di aver sempre desiderato che succedesse e forse avrebbe dovuto mostrarsi contento,  invece disse solo: “Domani la de Micheli mi interroga. Non ricordo niente” e abbassò gli occhi per nascondere la luce che gli si era accesa dentro.
Tullio non aveva mai visto il mare.  Alicia e Susanna, le sorelle maggiori, avevano provato a descriverglielo, ognuna a suo modo, attraverso i loro ricordi..  Alicia diceva: “ Immagina una distesa d’acqua sempre in movimento, e non riesci a vederne la fine”.  Susanna  descriveva la calma di certe cale ghiaiose, chiuse ai lati da rocce ripide o da scogli scivolosi e alle quali si arrivava scendendo infiniti gradini scavati nella pietra.
Tullio non capiva. Gli sembrava  che le due cose non andassero d’accordo fra loro. Ci rimuginava per qualche tempo ma  ci rinunciava quasi subito, attratto dal rumore di un pallone che batteva contro un muro, giù nel cortile, o dal suo nome gridato da un amico che lo invitava a giocare.
Ma quando erano arrivati, suo padre non aveva fatto in tempo a parcheggiare la macchina che lui già era sul sentiero che portava al mare, aveva corso senza guardarsi attorno, sino a che ci si era trovato davanti, allora si era fermato, il cuore in tempesta, le pupille dilatate per lo stupore. Aveva ragione Alicia: un’infinità di acqua che si agitava, che sembrava avere vita propria, un suo respiro.
La spiaggia era deserta. Vi si allungavano siepi di fiori selvatici, grigie radici di alberi sconosciuti emergevano da una sabbia fine, pronta a volar via appena schiudeva le dita, qualche ramo secco, contorto,  pronto a rotolare a un colpo di vento più forte.
E il  vento gli gonfiò  la maglietta, gli portò l’odore del mare, spruzzi d’acqua salata sulla pelle.
Tolse i sandali e camminò sulla sabbia bagnata,  si arrampicò   a fatica su uno scoglio, si ferì le mani, ma non se ne accorse. Aveva ragione Susanna:nella cala davanti a lui,  il mare era calmo, attraversato da strisce luminose che gli facevano socchiudere gli occhi. Brevi onde tranquille  vi penetravano, spostavano  la ghiaia del bagnasciuga, si ritiravano. In fondo, boschi di lecci e di pini, un accenno di sentiero che saliva verso il paese.
Sentì la mano  del padre sulla spalla e si voltò. Gli camminò accanto nel ritorno,  e a lui che insisteva per sapere, rispondeva che ” sì, il mare gli piaceva, ma…” e s’interrompeva.  E non sapeva se era orgoglio, pudore o timidezza ciò che gli impediva di confidarsi, o tutte e tre le cose insieme. Raggiunse Susanna, in piedi ad aspettarlo, e Alicia, china a raccogliere sassi colorati e conchiglie e si avviò sul sentiero, sino alla macchina. 
 

 

 

 

 

 



UN RAGAZZO


 
 

 
 

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